La mia ispirazione e formazione è di estrazione umanista, (Psicologia Umanistica) quella corrente innovativa che contribuì a creare una diversa concezione della “pratica dell’analisi” a dir poco rivoluzionaria, negli anni 50-60.
Secondo questo approccio, quando parliamo di psicoterapia, parliamo dunque della relazione psicoterapeuta-paziente/cliente, perché solo se vi è una relazione allora ci può essere “cura” e si possono dare risposte e fare interpretazioni. Infatti lo psicoterapeuta, nel promuovere il processo di modificazione della personalità del paziente, si affida non solo a tecniche e metodi di interpretazione, ma soprattutto all’empatia, concetto cardine del mio approccio.
L’empatia (da empateia, passione) viene intesa come la comprensione dell’altro e si realizza immergendosi nella sua soggettività, senza sconfinare nella identificazione. Lo psicoterapeuta deve essere capace di sviluppare un senso di accettazione positiva e incondizionata del paziente, di ogni suo aspetto, di ogni suo sentimento ed emozione espressi e non.
Se questa assenza di giudizio è presente, il terapeuta potrà avere una comprensione empatica di quanto il paziente sente a livello cosciente. E’ necessario sottolineare che lo psicoterapeuta può sentire il mondo dell’altro “come se” fosse proprio, senza perdere di vista mai tale qualità del “come se”. In questo modo egli può sentire l’ira, la paura, l’odio, il turbamento dell’altro senza aggiunte proiettive.
Non direttività significa rispetto della libertà e dell’autodeterminazione del paziente/cliente e contemporaneamente autoeducazione continua dello psicoterapeuta che è perciò in continua crescita.
Psicologia Umanistica: cenni storici
La Psicologia Umanistica nasce negli anni ’50-’60 in risposta all’esigenza ormai diffusa di trovare una via alternativa alla Psicoanalisi e alla Psicologia Comportamentista (Behaviorismo). Noto come “la Terza Forza” della psicologia, questo indirizzo muove i primi passi dall’opera di Carl Rogers e Roll May ma soprattutto di Abraham Maslow che nel 1962 fonda la “American Association for Humanistic Psychology”.
Superando la mera osservazione comportamentale, i fondatori di questo nuovo approccio si proponevano soprattutto di cambiare l’oggetto dell’analisi del terapeuta ed il suo modo di porsi nella relazione con il cliente. In particolare, andando oltre l’esame freddo e distaccato del passato, gli elementi centrali della Psicologia Umanistica sono il riconoscimento del cliente come persona unica al mondo, il coinvolgimento e la concentrazione sul “qui ed ora” e sull’esperienza.
Nonostante, però, col tempo questa nuova interpretazione della psicologia ha dato vita a diversi approcci terapeutici, i cardini comuni di tutto ciò che fa riferimento alla “terza via” della psicologia sono:
– la centralità e l’unità della persona
– l’approccio fenomenologico
– la rilevanza data alla tendenza alla realizzazione e alla crescita
– la fiducia nella capacità umana di autodeterminazione
– ma soprattutto ciò che lega il terapeuta al cliente: l’empatia!
L’empatia, appunto, la non direttività e l’accettazione incondizionata sono gli assetti principali dello Psicologo Umanista. Nella relazione con il cliente quindi, il terapeuta, anch’esso soggetto ad un processo di continua crescita e di auto-educazione, si propone di accompagnare l’individuo lungo un percorso di crescita attraverso l’autoconsapevolezza e l’autodeterminazione. Non c’è più qualcuno che, dall’alto del suo sapere, risolve i problemi di un altro, ma c’è un addestramento all’indipendenza e all’autonomia in cui non si utilizzano le conoscenze sulla natura psichica dell’essere umano per “far guarire” qualcuno, ma si forniscono direttamente queste conoscenze a chi ne ha bisogno, affinché la persona possa poi comprendersi meglio e riequilibrarsi anche da sé.
Più nel dettaglio, la Psicologia Umanistica si avvicina ai fatti umani da un punto di vista esperienziale, ovvero cerca di comprendere effettivamente ciò che la persona sente, vive ed esperimenta con la mente, con l’anima e con il corpo.
“L’incontro terapeutico”, tema centrale della Psicologia Umanistica e precedentemente di quella esistenziale, implica l’adesione empatica a ciò che il cliente esperimenta, l’attenzione a qualsiasi tipo di comunicazione, cioè a quella complessa rete di messaggi – tono della voce, gestualità, distanza – che va sotto il nome di “linguaggio del corpo”: il corpo come “base originaria dell’esistere nel mondo” diventa un aspetto privilegiato delle tecniche che si muovono nell’ottica della Psicologia Umanistica.
L’accento posto sull’aspetto esistenziale e fenomenologico nella pratica terapeutica non deve portare però a sottovalutare l’importanza del razionale e del mentale e quindi dell’apprendimento di metodologie fondamentali nel setting terapeutico.
La Psicologia Umanistica non è una metodologia né una tecnica di lavoro ma piuttosto una “concezione e un progetto di uomo” da cui deriva una qualità particolare nell’affrontare le cose umane.
Tutto ciò non significa che essa sia in contraddizione con l’approccio scientifico, ma si avvale anche di esso, dal momento che entrambi i punti di vista sono fondamentali per una concezione integrata dell’uomo.
Se è vero, infatti, che la cultura occidentale ci ha condotto a sviluppare la nostra razionalità a danno della nostra emotività, sviluppare quest’ultima a danno della prima sarebbe oltremodo negativo in quanto riproporrebbe una disarmonia all’interno della persona. Di qui va ribadita la necessità di una concezione della persona – fondamentale anche per la formazione del terapeuta – che tenga conto degli aspetti razionali, emotivi, mentali e corporei, nonché della creatività e della spiritualità, aspetti che fanno dell’uomo un essere in grado di sviluppare la propria potenzialità, di autorealizzarsi e autoprogettarsi.
La concezione integrata della persona come unità bio-psico-spirituale cambia il senso della psicoterapia da recupero ed eliminazione del sintomo e del disagio mentale ad occasione e momento di crescita personale.
In questa ottica, il sintomo, in una selva di condizionamenti e azioni repressive da parte del sociale, diventa l’espressione più vera e autentica di una esistenza sofferente che lancia un appello, un messaggio per approdare a un nuovo assetto della propria personalità e ad una organizzazione più umana della propria esistenza.
Da questo cambiamento di ottica emerge una figura diversa, di “terapeuta filosofo”, non soltanto tecnico riparatore di una disfunzione, ma facilitatore di uno stile di vita più vero.
Seguendo una bella metafora che Rollo May ha mutuato dal mito di Filottete, lo psicologo umanista va visto, dunque, come il “guaritore ferito” che grazie alla consapevolezza della sua ferita diventa guida e compagno di viaggio di quanti si avventurano sulla strada tortuosa della ricerca di sé. Quindi, il terapeuta non fornisce ricette, non offre soluzioni e, soprattutto, non usa solo il suo intelletto per aiutare la persona che si trova di fronte. Partecipa e si coinvolge, entra in risonanza con l’altro e stabilisce un rapporto umano.